Quando si parla di Sud tradito dalla politica nazionale inevitabilmente si tirano in ballo le eventuali responsabilità delle Regioni, che, benché non nate con l’accompagnamento da uno smisurato entusiasmo, specie dalle nostre parti, venivano considerate gli strumenti istituzionali che avrebbe potuto prendere dal basso i problemi meridionali e portarli alla valutazione dei tavoli nazionali. Considerazioni queste che si facevano all’indomani del periodi d’oro del Sud, compreso tra gli anni ’50 e ’70, quando le distanze tra Nord e Mezzogiorno erano molto più corte, perché potevano beneficiare della convinta azione meridionalistica di personaggi come, ad esempio, Saraceno e dalla politica a vocazione meridionalistica interpretata da governanti di stampo nazionale, come Moro, La Malfa e Berlinguer. Eppure, sin d’allora si poneva il problema di riconsiderare La questione meridionale nella sua ampiezza ed anche complessità, facendola finalmente diventare elemento essenziale nella programmazione governativa. Si rimprovera spesso ai nostri governanti e soprattutto alla classe dirigente meridionale la grave disattenzione nei confronti dei problemi del Sud, soprattutto in tema di disponibilità di infrastrutture. E’ vero che si è puntato in molte aree sulla politica dell’industrializzazione, ma a macchia di leopardo, però con uno schema disarticolato, disomogeneo, distaccato dai grandi flussi nazionali e internazionali. E, infatti, tantissime di queste aziende sono finite nei cimitero delle unità decotte, senza un futuro che potesse, in qualche maniera, determinare l’aggancio con la dinamica nazionale, che in quel momento procedeva a ritmo sostenuto.
In quell’epoca sono nate le cosiddette cattedrali nel deserto, proprio ad indicare la situazione di scollatura tra la realtà produttiva locale e quella nazionale. E’ chiaro che non si vuole demonizzare il processo di industrializzazione, che è valido se messo in campo solo se risponde alle regole di mercato. Si pensò che le Regioni, potendo, tra l’altro, anche legiferare per alcune materie, potessero rappresentare l’Ente in grado di farsi carico delle potenzialità locali, in un contesto più organico e realistico, facendo da ponte con la programmazione nazionale. Purtroppo, così non è stato, perché gli enti regionali, come si temeva, sono diventati altri carrozzoni che hanno prodotto molta pessima burocrazia e clientela da ogni lato, indipendentemente dalle forze politiche che li rappresentavano. Quando si sono mossi sul piano dell’accompagnamento delle iniziative hanno prodotto altri guai, perché si è voluto ancora far ricorso a quelle pratiche consolatorie che in economia sono destinate ad esplodere a breve. Se oggi ci troviamo a rimpiangere un passato, che pure non era esaltante, è perché abbiamo voluto preferire i soliti modelli affidati alla burocrazia, anziché alle capacità imprenditoriali, pensando che la politica del soccorso a sfondo caritatevole ( e clientelare) sarebbe potuta durare per sempre. E così non è stato. Ed ora stiamo pagando duramente le conseguenze.